Chiba City Blues

Questo frammento di racconto mi è stato ispirato da un passo del libro Neuromante di William Gibson. Il titolo è una citazione dalla parte prima del libro, intitolata appunto Chiba City Blues.

Ma lì, nella notte giapponese, i sogni arrivavano come in un rituale voodoo, e lui urlava, urlava nel sonno, e si svegliava da solo nel buio, raggomitolato nella sua capsula, in qualcuno di quegli alberghi-bara, con le mani che artigliavano le piastre del letto, la termoschiuma serrata tra le dita, cercando di raggiungere una consolle che non c’era.(W. Gibson, Neuromante, Milano, Editrice Nord, 1999)

Fu risvegliato dallo scoppio di proiettili esplosi da una pistola.
Aprì gli occhi e si ritrovò a fissare la pala sgangherata del soffitto della sua camera in un anonimo appartamento di quarta categoria di un anonimo quartiere popolare che avrebbe potuto appartenere all’anonima periferia di una qualsiasi città, tanto si somigliano tutti nel loro squallore e degrado.
Solo, quella non era una qualsiasi città e quello non era un anonimo quartiere di periferia.
Chiba City. Un posto buono solo per impasticcati, sbandati, papponi, puttane, gangster, yakuza, pusher, barboni e disperati.
Lo scoppio dei proiettili ancora gli risuonava nelle orecchie e nello stupore del primo risveglio, quando ancora la mente è intorpidita e il sogno che stavi facendo non si è ancora dissolto, si alzò bruscamente a sedere sul letto e tastò il proprio corpo alla ricerca di ferite da proiettile, che non trovò. Sollevato, o forse deluso, o forse entrambe le cose, si lasciò cadere di nuovo sul materasso e volse la testa verso la finestra aperta.
Troppo torrida la notte giapponese se non si possedeva un condizionatore d’aria, per permettersi il lusso di chiudere i vetri.
Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.
Non era la prima volta che sognava di essere massacrato a colpi di pistola.
Nella notte giapponese, in cui i sogni arrivavano come un rituale voodoo, la stessa visione lo visitava tutte le notti. Attraversava la città al neon senza ragione e senza meta e dal nulla spuntava la canna di una pistola e cominciava a vomitare proiettili. Il primo proiettile lo colpiva allo stomaco, il secondo al ginocchio, il terzo alla spalla, il quarto in pieno petto, il quinto al centro della fronte e in quel momento si svegliava, ansimante e ricoperto di sudore gelido, nonostante la notte torrida che puzzava di marcio e carburante combusto.
I proiettili poteva averli immaginati o potevano essere stati esplosi da qualche parte giù in strada. Non gli importava.
Odiava quello schifo di appartamento, quello schifo di quartiere, quello schifo di città; ma soprattutto odiava quello schifo di vita, che non si era scelto lui ma era stato costretto a vivere dal momento che aveva accettato quello schifo di lavoro per cui non veniva nemmeno pagato abbastanza. No, non lo pagavano abbastanza, maledizione!
Aveva dovuto rinunciare a tutto: la sua identità, i suoi affetti, la sua casa e a una brillante carriera in polizia.
Non lo pagavano abbastanza per tutta la merda che era costretto a ingoiare solo per tirare a campare e che comunque non riusciva a scacciare gli incubi – quella dannata visione notturna che lo tormentava. Da quando? Da sempre, per quanto ne sapeva, per quel che ricordava. Da sempre da quando aveva accettato quello schifo di lavoro.
Aveva quasi sperato di non aver immaginato i proiettili questa volta. Che fosse tutto finito.
Ma non era così. Era ancora vivo, era ancora integro e ancora non aveva terminato la sua missione.
Non poteva immaginare, allora, giovane e ingenuo cadetto fresco d’accademia, che il lavoro di agente infiltrato avrebbe comportato sacrificare così tanto della sua vita e della sua salute mentale.
Si chiese se il bureau gli avrebbe pagato la clinica per la disintossicazione, quando avesse terminato la missione e fosse rientrato negli Stati Uniti.
Si alzò a sedere sul letto, gettò fuori le gambe, armeggiò con i flaconi mezzi vuoti degli psicofarmarci, ingoiò le pasticche con un sorso d’acqua che sapeva di plastica da una bottiglietta surriscaldata di Evian, si coricò, si volse sul fianco, dando le spalle alla notte televisiva di Chiba City e chiuse gli occhi, invocando il sollievo dell’oblio del sonno.

4 pensieri riguardo “Chiba City Blues

  1. Grazie. Questo racconto è nato all'interno di una serie di esercizi per un corso di scrittura creativa che ho frequentato nel 2010.
    Chiba City Blues – questa frase mi ronzava in testa fin da quando, adolescente, avevo letto il libro di Gibson (e anche l'immagine del cielo televisivo; mi aveva colpita tantissimo).
    Quando ho avuto l'occasione di lavorare sul tema, è venuto fuori questo breve frammento, che non escludo possa ritornare in un racconto dal respiro più ampio.

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